La manovra colma di tasse che ha tanto deluso il «New York Times» ha un po’
depresso anche noi. L’avremmo voluta più coraggiosa e profonda: i due attributi
che cambiano sempre una storia e talvolta la Storia. Cos’aveva e cos’ha da
perdere, il professor Monti? Ancora per qualche settimana i partiti saranno ai
suoi piedi: deboli, smaniosi di farsi dimenticare e costretti a sottoscrivere
qualsiasi ricetta, pur di non essere additati come i responsabili della
catastrofe. Una condizione temporanea e irripetibile, che consentirebbe al
governo di fare politica sulla testa dei politici e in parte anche degli
italiani, impugnando la sciabola dell’emergenza per sradicare privilegi e
spalancare finalmente le finestre di un Paese soffocato dalle mille caste che
abbiamo visto agitarsi in queste ore.
Siamo un popolo di riformisti
immaginari, che si svegliano rivoluzionari ma tornano conservatori all’ora di
mettersi a tavola. Il popolo del primo comma. Prendete qualsiasi documento
partorito in Italia: non soltanto una legge, basta un regolamento di condominio.
L’incipit vi colpirà per la chiarezza espositiva e la precisione dei permessi e
dei divieti. Poi però si va a capo, perché da noi si va sempre a capo, e lì
cominciano le eccezioni. Ognuna rispettabile, giustificabile, persino
auspicabile. Ma il risultato finale sono l’impotenza e
l’arbitrio.
Nessuno pretendeva che Monti cambiasse in un mese la testa
millenaria degli italiani. Però non sarebbe stato male se fra tanti tecnici il
professore si fosse ricordato di inserire al governo un esperto di psicologia.
Lo avrebbe aiutato a cogliere gli umori profondi dei suoi concittadini. Che
erano sì rassegnati ad aprire il portafogli. Ma chiedevano due cose.
Innanzitutto, che prima di loro lo aprissero i politici. Ci si sarebbe
accontentati di un segnale: una trattenuta sull’onorevole stipendio o la sua
conversione in Buoni del Tesoro. Chi, a destra e a sinistra, avrebbe avuto la
faccia tosta di opporsi?
La seconda richiesta era e rimane più
impalpabile, ma non meno reale: l’indicazione di un orizzonte. Non basta agitare
il fantasma del fallimento: pagate le tasse, altrimenti qui salta tutto. Vero.
Ma non si guarisce un depresso con la paura. Con la paura lo si può convincere a
compiere un gesto di sopravvivenza, che è poi quello che stiamo facendo. Però
per uscire dalle secche del declino serve la speranza in un avvenire che non può
essere la restaurazione dello Stato sociale novecentesco che la globalizzazione
dei cinesi e dei banchieri ha distrutto per sempre. Dai Monti e dai Passera ci
aspettiamo qualcosa di più strategico. Altrimenti sarebbe stato sufficiente
ingaggiare una coppia a corto di diottrie come quella che guida Francia e
Germania.
Il contribuente ha il dovere di pagare, ma ha anche il diritto
di sapere a cosa serviranno i suoi sacrifici. A investire sul potenziamento
dell’unica italianità spendibile all’estero - ricerca, agricoltura, artigianato,
turismo, cultura -, oppure a tappare le falle di bilancio che la recessione e il
killeraggio dei mercati si incaricheranno di riaprire fra sei mesi?
Bisogna
scegliere, bisogna osare. Questo non è più il tempo dei rimpianti e delle
recriminazioni. È il tempo della forza e del coraggio. Vale per il governo, per
le imprese, per gli analisti che analizzano e non azzardano mai soluzioni. Vale
per tutti noi che ci aggiriamo fra i vicoli della crisi come pugili suonati,
digrignando i denti in faccia al mondo che cambia, invece di guardarlo negli
occhi per capire se possiamo ancora farcelo amico.
Massimo Gramellini dal quotidiano "LA STAMPA"
lunedì 19 dicembre 2011
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