domenica 19 febbraio 2012

CRONISTI PRECARI E MINACCIATI PER QUATTRO EURO AD ARTICOLO

Giovanni Tizian, 4 euro a pezzo e la vita sotto scorta. La sua storia alza il velo su rischi e condizioni di lavoro dei precari dell’informazione. Quanti Tizian ci sono in Italia? Quanti giornalisti sono stati ridotti a bersaglio? Sono diverse centinaia ogni anno. A tenere la contabilità è “Osservatorio ossigeno”, un gruppo di lavoro che dal 2006 traccia il fenomeno dei giornalisti nel mirino in collaborazione con federazione della stampa (Fnsi) e ordine dei giornalisti (Odg).

Il rapporto denuncia solo nel 2011 95 casi di intimidazione a danno di 324 cronisti lasciati soli davanti alle minacce. Dal 2006 sono 925 i casi segnalati, dal primo gennaio 2012 19. Nella maggior parte dei casi si tratta di azioni gravi e violente. Nicola Lopreiato scrive per la Gazzetta del Sud e il 6 gennaio ha ricevuto dal carcere una lettera di minaccia inviata dal boss Leone Soriano. Eppure non ha fatto notizia. Il giorno dopo una bomba esplode davanti al portone di casa di Nello Rega, giornalista che lavora per Televideo Rai.
Pochi giorni ancora e balza finalmente agli onori della cronaca il caso di Giovanni Tizian. In un’intercettazione tra mafiosi si progetta di ucciderlo. E lui finisce in prima pagina. Perché? Perché la sua vicenda condensa perfettamente i due mali del precariato nel giornalismo: la massima esposizione personale abbinata al minimo compenso economico possibile, 4 euro lorde. Ma i giornalisti precari rischiano la vita anche per meno. Perfino per un albero. Antonio Gregolin è l’ultimo dell’elenco, la new entry. E’ un cronista precario che scrive per il Giornale di Vicenza. A metà gennaio è stato preso a bastonate dopo un articolo. E non aveva denunciato ecomafie, ‘ndgranghetisti o chissà quale lobby. Aveva difeso un platano secolare che un privato voleva abbattere. Dopo il suo articolo di denuncia è stato seguito, colpito alle spalle con un bastone, preso a calci mentre era a terra e minacciato di morte. Per un platano e 22 euro lordi. Si rimane basiti dal silenzio delle istituzioni di fronte a questi casi. Peggio.

A scorrere il report si moltiplicano i tentativi di condizionamento e censura praticati da amministratori pubblici, magistrati e poliziotti attraverso un altro tipo di minaccia: il ricatto economico. Fioccano diffide e annunci di querela su giornalisti precari che proprio per la loro condizione sono più facilmente ricattabili. Leonida Ambrosio dirige il periodico online “Una pagina” di S. Giuseppe Vesuviano (NA). Per aver raccontato retroscena dello scioglimento del comune per infiltrazioni camorristiche ha ricevuto una richiesta di danni per 200mila euro, richiesta che incredibilmente è stata portata avanti perfino dai commissari prefettizi che sono subentrati all’amministrazione disciolta. Un bel libro sul tema lo ha scritto Raffaella Cosentino che ha passato in rassegna alcuni casi di giornalisti divenuti besaglio in Calabria. Si chiama “Quattro per cinque” e racconta storie come quella di Angela Corica, cronista di Calabria Ora che per quattro centesimi si è beccata 5 proiettili sparati da cecchini sulla sua auto.

Così intimidazione e precarietà vanno a braccetto e trasformano il mestiere del giornalista nel “cottimista dell’informazione”. I precari se ne sono accorti da tempo. Negli ultimi anni hanno scoperto la loro condizione di “gruppo” e si sono moltiplicate le iniziative dal basso, come la Carta di Firenze che stabilisce un codice deontologico fra colleghi o i tentativi di “contarsi”. Il 16 febbraio nella sala della Pace della Provincia di Roma il coordinamento di giornalisti precari di Roma “Errori di Stampa” presenterà i dati del primo censimento sul precariato dell’informazione nella Capitale, redazione per redazione, con i tariffari reali dei compensi di 2mila giornalisti. Il tam tam corre sulla rete che permette alle firme precarie di conoscersi e riconoscersi, di rompere la solitudine tipica dei lavoratori invisibili. Sui social network, come nelle piazze, si mobilitano collettivi strasverali, coordinamenti regionali, gruppi di lavoro, associazioni: “Firme precarie”, “Refusi”, “Errori di Stampa”, “SottoPRESSione” sono alcuni nomi nuovi. Su Twitter corre l’ashtag #4euroalpezzo in cui si cinguettano storie di sfruttamento e sacrificio. Il muro di gomma dei colleghi “interni” che “non leggono neppure le mail”. Di pagamenti mai arrivati. Sono i 4 euro di “Siamo tutti Tizian”, come recita il gruppo Facebook nato in solidarietà al cronista sotto scorta e calamitato il 26 gennaio davanti a Montecitorio per dire basta sfruttamento, tutti insieme. Per non farla finita come Pierpaolo Faggiano, ex collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno che si è ucciso a giugno a causa delle pessime condizioni lavorative: a 41 anni veniva pagato ancora sei euro a pezzo. Lorde.

giovedì 16 febbraio 2012

ECCO LA PROVA: MONTI OSTAGGIO DI BERLUSCONI

Stamattina il presidente della X Commissione del Senato ha dichiarato inammissibile l’emendamento dell’Italia dei Valori con il quale chiedevamo di mettere in gara le frequenze televisive, invece di regalarle a Berlusconi e alla Rai con la buffonata del beauty contest.
Il governo e la stranissima maggioranza che lo sostiene se ne sono rimasti acquattati senza intervenire. Così abbiamo avuto la prova provata di quel che diciamo sin dall’inizio: il governo Monti è ostaggio di Berlusconi e dei suoi sodali. Può permettersi di essere prepotente con le fasce sociali più deboli ma, di fronte all’azionista di maggioranza che può farlo cadere quando vuole, deve restare in riga e obbedire.
Diciamo allora le cose come stanno, senza fare gli ipocriti come tutti gli altri:le frequenze regalate a Mediaset sono il prezzo pagato dal governo per ottenere e conservare il voto di fiducia di Berlusconi. Tutte le promesse del ministro Passera sulla cancellazione del beauty contest, tutte le belle parole sulle liberalizzazioni e sulla fine degli oligopoli sono solo chiacchiere. Fumo negli occhi dei cittadini che, a differenza di Berlusconi, il prezzo della crisi devono pagarlo davvero e non solo a parole.
Noi dell’Italia dei Valori però non ci siamo arresi e non ci arrenderemo. Continueremo anche da soli questa battaglia giusta e sacrosanta. Non siamo stati complici di Berlusconi ieri e non lo saremo nemmeno oggi, quando tante forze politiche fingono di non vedere lo schiaffo che è stato dato a tutti i cittadini onesti, pur di non disturbare il manovratore e il suo governo.

lunedì 6 febbraio 2012

Il posto fisso per Monti è monotono Ma la figlia del ministro Fornero ne ha due

Silvia Deaglio, 37 anni, risulta professore associato alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino. Il secondo impiego è quello di responsabile della ricerca presso la HuGeF, una fondazione attiva nel campo della genetica
Il ministro del Lavoro che ha un figlia con doppio lavoro e per giunta nella stessa università torinese di mamma e papà. Silvia Deaglio, 37 anni, risulta così ricercatrice in oncologia e professore associato alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino. Il secondo impiego è quello di responsabile della ricerca presso la HuGeF, una fondazione attiva nel campo della genetica, genomica e proteomica umana.

La figlia del ministro ha preso a insegnare medicina, a soli 30 anni, proprio nella stessa università in cui insegnano economia il padre Mario e la madre neoministro.

Ma anche l’altro posto fisso che affligge Silvia è sotto tiro. Dietro l’incarico presso la “Human Genetics Foundation” ci sarebbe ancora lo zampino di mamma. Solo perché la fondazione è stata creata dalla Compagnia di San Paolo di cui la Fornero era vicepresidente, dall’università di Torino in cui insegnano i genitori e dal Politecnico di Torino il cui rettore era nel consiglio direttivo della Fondazione, fino a che non è diventato ministro dell’Istruzione con il nome di Francesco Profumo. Sarà che Torino è piccola. E che – come scrive Dagospia – la figlia del ministro è “l’incarnazione del ceto accademico-bancario della sinistra liberale sabauda” (e lei, per non smentire l’alto lignaggio, ha sposato un alto dirigente di banca, Giovanni Ronca, già responsabile dell’area Nord–ovest di Unicredit). Ma queste son chiacchiere da bar, gossip, tutto fumo.

Per diradare nebbie e dubbi bisogna scorrere tutto il curriculum senza fermarsi all’intestazione. Si scopre allora che Silvia il suo successo lo merita tutto quanto perché è una calamita di fondi pubblici e privati, un prodigio della natura nel finanziare la ricerca. Soprattutto la propria. In un Paese che investe in questo campo meno dell’1% del Pil Silvia Deaglio è riuscita a ottenere dai ministeri della Salute e della Ricerca quasi un milione di euro in due anni (500mila nel 2008, 373.400 e 69mila nel 2009). Le briciole arrivano dalla Regione Piemonte con finanziamenti a progetti per 12mila e 6mila euro. Altrettanto frenetica l’attività di ricerca fondi per il secondo posto fisso, dove l’intervento delle “alte sfere” è palese. La Compagnia di San Paolo, quella “vicepresieduta” dalla mamma, nello stesso biennio ha finanziato a Silvia un progetto di ricerca da 120mila euro divisi in due trance da 60mila. Nel 2010 la fondazione “Human Gentics Foundation”, creatura della Compagnia stessa, ha garantito il posto da responsabile di unità di ricerca affidandole un progetto da 190mila euro. Silvia, alla fine dei conti, è una donna da un milione e mezzo di euro. A fronte di tutto questo ha pubblicato su Blood, la bibbia mondiale della ricerca sulle malattie del sangue.

sabato 4 febbraio 2012

20 ANNI DA MANIPULITE ( ..e rubano ancora )

Milano – 17 febbraio ore 17 - Teatro Elfo Puccini, Corso Buenos Aires, 33
Carissimi,
il 17 febbraio, alle 17, vi diamo appuntamento, a Milano, presso il Teatro Elfo Puccini. Infatti quel giorno, a quell’ora, cade il ventesimo anniversario dall’arresto di Mario Chiesa. Di lì a due anni nelle aule giudiziarie di Milano furono chiamati leader ed esponenti dei partiti per parlare di un sistema di potere, fatto di commistioni tra affari e politica, che aveva portato l’Italia sull’orlo della bancarotta. A tanti anni di distanza poco o niente è cambiato. Anzi quel sistema si è ingegnerizzato, affinato e la politica ha tentato di demonizzare la magistratura, ha depenalizzato quei reati, come il falso in bilancio, in modo da poter agire indisturbata.
In questi giorni, l’operazione rischia di completarsi e il cerchio è pronto a chiudersi con la denigrazione e la delegittimazione di quei giudici che venti anni fa, rispondendo al dettato costituzionale, individuarono la malattia presente nei partiti. Non è certo un caso che oggi i media e i noti soloni della politica si apprestino a ricordare quella data con un inedito, seppur scontato, copione: una rivisitazione strumentale di quelle vicende, al fine di riabilitare e giustificare personaggi e metodi che sono ancora in auge.
Infatti, in questi salotti mediatici per ricordare Mani Pulite, troviamo volti conosciuti alle aule giudiziarie di quel tempo. Coloro che avevano snocciolato cifre e dettagli sulle tangenti, adesso si affrettano a smentire la testimonianza rilasciata ai giudici, scritta e sottoscritta, e parlano di abuso dell’autorità giudiziaria.
Insomma gli imputati di allora si ergono a giudici. Così in una storia tra guardie e ladri le parti si invertono. Un’operazione scientifica, fatta al fine di giustificare l’operato di dirigenti politici, di logge massoniche e di comitati d’affari, noti alle cronache di questi anni, di questi giorni, come a quelle dell’epoca. E’ un modo per mettere tutto nel calderone, per appannare e nascondere la verità.
La morale di quanto sta avvenendo è che oggi, come allora, il Parlamento cerca di fermare l'azione dei magistrati. Quando c'era 'Mani pulite', ci provarono con il decreto Biondi, oggi con la norma 'anti-toghe' inserita nella Comunitaria. Si tratta di una legge che è una vera e propria vendetta, un ammonimento nei confronti dei magistrati.
Sembra proprio di tornare al lontano febbraio del '92, quando stavamo scoprendo le malefatte del Palazzo e, dentro le aule di Camera e Senato, tutti si facevano scudo dell'immunità parlamentare, etichettando come semplici ‘mariuoli’ quelli che erano, in realtà, gli anelli terminali della catena. Anche oggi, mentre i cittadini assistono allibiti alle ruberie della casta, agli illeciti finanziamenti, e i magistrati portano alla luce reati gravissimi, la classe politica, invece di prendere provvedimenti contro coloro che violano la legge, pensa a punire i giudici per autotutelarsi.
La votazione di ieri ha reso evidente l’esistenza di una P2 parlamentare che si è nascosta dietro al voto segreto ed ha messo in atto la propria vendetta. Insomma, mi sembra proprio che nulla sia cambiato in questi vent’anni.
Per questo ci vediamo a Milano, il 17 febbraio, alle ore 17. Insieme a me ci saranno Gianni Barbacetto, Giuliano Pisapia, Bruno Tabacci e Marco Travaglio.
Per maggiori informazioni vi invito a visitare la pagina web dell’evento http://www.italiadeivalori.it/mani-pulite/
A presto,
Antonio Di Pietro

mercoledì 1 febbraio 2012

VI RACCONTO MANI PULITE

Qui sotto l'intervista che ho rilasciato oggi a L'Eco di Bergamo.

Mani pulite vent'anni dopo. Antonio Di Pietro vent'anni dopo. Il magistrato di ieri e il politico di oggi. Forse per gli italiani il pubblico ministero per eccellenza. Osannato e demonizzato, come la sua inchiesta, lontana ormai una generazione, quando le tangenti si pagavano ancora in lire. 17 febbraio 1992, l'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa: il lunedì più nero della Prima Repubblica comincia così, con un socialista pizzicato con la mazzetta incassata da un imprenditore. Sette milioni di vecchia moneta, banconote segnate e fotocopiate: una ogni dieci portava la firma del capitano dei carabinieri Roberto Zuliani su un lato e quella di Di Pietro sull'altro.
«Mike» e «Papa», così si parlavano in codice alla radio durante le indagini sfociate nell'arresto che avrebbe travolto un'intera classe politica. MP era la sigla che finiva nei verbali, Mike-Papa, quando Mani pulite ancora non esisteva. «Lui era Mike e io Papa – ricorda Di Pietro –. MP nasce prima di Mani pulite. Quel nome l'ho inventato io dopo, quando è stato il momento di decodificare la sbobinatura delle intercettazioni ambientali fatte a Chiesa. Bisognava spiegare quella sigla, che ricorreva un po' ovunque nelle carte. Dire che lui era Mike e io addirittura Papa? Mi sono inventato Mani pulite».
S'è inventato Mani pulite. Tonino «Papa» Di Pietro è fatto così, prendere o lasciare. «Quando arrestammo Chiesa, a Borrelli (all'epoca procuratore capo di Milano, ndr) obbiettarono subito: "Ecco, adesso che ci sono le elezioni, si fanno questi arresti". Lui rispose dicendo che non era affatto così, che Chiesa era stato colto in flagrante, che sarebbe stato fatto il processo per direttissima e si sarebbe chiuso tutto lì. Ma io la direttissima non la feci, aspettai dopo le elezioni e poi andai avanti». Fu un domino di arresti, un colpo sparato a Milano ma che deflagrò in tutta la sua potenza nella capitale, il cuore del potere politico. Due anni di indagini forsennate, tra i peana dei sostenitori e i feroci attacchi dei detrattori. Nessuna mezza misura. Un milione di pagine di atti. «Ma Mani pulite non è stata la mia inchiesta più grossa – racconta l'ex pm –. No, quella più grossa è stata la difesa dal dossieraggio fatto contro di me in seguito a Mani pulite: quattro anni di lavoro e ben due milioni di pagine tra i fascicoli. E vorrei ricordare come è finita: dieci proscioglimenti perché il fatto non sussiste in fase istruttoria, non sono mai andato a processo».
Ma i processi si fanno anche fuori dalle aule di giustizia, e vent'anni dopo la stagione che mise sul banco degli imputati Tangentopoli, la rilettura di quella primavera giudiziaria divide ancora. Se per molti la toga dei magistrati milanesi era quasi un mantello da eroe, per altri non era che la cappa sotto la quale si nascondeva la mano di un grande vecchio.

«Eutanasia di un potere». De Benedetti, nel libro scritto dal giornalista Marco Damilano, torna a battere il tasto di un'accusa reiterata nei confronti del pool, e cioè che Mani pulite in qualche modo risparmiò il Pci.
«Io vorrei confrontarmi con De Benedetti guardandolo in faccia, perché deve spiegare anche a me che cosa vuol dire che la sinistra è stata aiutata. Mani pulite l'ho fatta io, e io non sono stato né etorodiretto né imboccato da alcuno. In quell'inchiesta, come in tutte le inchieste e come in tutte le cose della vita, qulache volta ho sbagliato bersaglio, ma questi errori non rientravano certo in un'azione dolosa, omissiva o abusiva. Mani pulite non è nata per fini politici, non si è sviluppata per fini politici e tantomeno ha perseguito fini politici. È stata un'inchiesta giudiziaria come altre, che di politico aveva gli indagati».

I comunisti hanno avuto meno conseguenze giudiziarie rispetto ad altri, come lo spiega?
«Lo spiego subito, e non sulla base di considerazioni soggettive, ma sulla base di atti. Ricordo che durante un interrogatorio ci feci proprio la pizza (un grafico-torta, ndr): ogni anno le imprese davano una percentuale rispetto al tipo di lavori che ottenevano. Dato cento il totale, la pizza era divisa in quattro parti. Ogni cento lire di tangenti, 25 andava alla Democrazia cristiana, 25 ai socialisti e un altro 25 al sistema dell'amministrazione: per intenderci, il ministro competente, assessori, consiglieri, sindaci, chi di fatto firmava gli atti necessari per appalti e quant'altro. Restava ancora un 25, ma non si trattava di soldi. No, qui si parlava di lavori o di servizi assegnati al mondo che ruotava attorno alle cooperative. E tu vallo a tradurre in un articolo di reato... Io davo tutto a Davigo (Piercamillo Davigo, storico componente del pool, di cui era considerato la mente, e noto anche come il "dottor Sottile", ndr) e lui mi chiedeva: "Che reato è?". Risposta: "Reato di porcata, poi vedi tu che veste penale dargli". A volte si riusciva e a volte no, ma perché c'erano difficoltà istruttorie oggettive. Questi a sinistra si erano già ingegnerizzati, erano avanti. Non mi son fatto paura di Craxi, avrei dovuto farmi paura di Occhetto? Altro che grande vecchio. Però, adesso che ci ripenso, uno c'era...».

Chi?

«Il presidente Cossiga. Nel periodo di Mani pulite ogni mattina alle cinque, massimo alle sei, mi suonava il telefono: era lui. Non parlava mai dell'inchiesta, non mi ha chiesto mai nulla che avesse un vago accenno al fronte giudiziario. Mi domandava come stavo, cosa avevo mangiato, domande del genere. Aveva capito come mi stavo muovendo, aveva capito che stava cambiando il mondo».

Dopo vent'anni, che lettura dà di quella stagione e di quell'inchiesta, e anche delle conseguenze che ha avuto, da magistrato e da politico?
«Mani pulite è stata una potente radiografia del Paese, la diagnosi di una profonda e radicata malattia sociale: la corruzione. Ma bisogna distinguere fra Tangentopoli e Mani pulite. Tangentopoli è quella città virtuale in cui, dal Dopoguerra al '92, il rapporto tra i poteri è stato travisato e inquinato dal fatto che il sistema degli affari e quello della politica, corrompendosi tra loro, hanno indebitato il nostro Paese, hanno reso la nostra pubblica amministrazione inefficiente. L'essenza di tutto questo è stata la P2».

Mani pulite è partita nel '92. E prima?
«Fino ad allora l'anomalia nei rapporti tra affari e politica non aveva assunto e non poteva assumere valenza penale».

Vale a dire che si pagavano tangenti senza commettere reato?

«Il sistema si era, diciamo così, affinato. Si agiva in modo da non rendere i fatti penalmente rilevanti. Mi spiego meglio. Ogni tanto capitava che qualcuno venisse scoperto, preso e condannato, ma tutto finiva lì. Si procedeva per un fatto circoscritto. Ma la politica capì che in questo modo si correvano dei rischi, che qualcuno prima o poi sarebbe potuto cadere, e allora ideò il cosiddetto sistema Cusani. Le imprese si assumevano l'onere percentuale di pagare, ciascuna in relazione al proprio fatturato, un tot ai vari partiti; questi ultimi, da parte loro, sapevano quali erano le società di riferimento, che costituivano una sorta di cartello: chi stava dentro lavorava, chi stava fuori no. Le gare d'appalto venivano fatte, ma si sapeva già chi ne sarebbe uscito vincitore. Esempio: se un appalto valeva cento, tutte le società partecipavano alla gara presentando preventivi per mille. Tutte tranne una, che correva con un preventivo di 999. Sicuramente era il prezzo inferiore e quindi quest'impresa si aggiudicava i lavori, però quel 999 era ben più alto di cento. In questo modo l'appalto, alla pubblica amministrazione, veniva a costare dieci volte tanto. È qui che è caduto, nei quarant'anni della storia italiana, l'indebitamento pubblico: nell'aver portato all'esasperazione il costo. Pensiamo alla Tav: per la realizzazione di un chilometro dell'Alta velocità in Francia si spendono nove milioni di euro, in Germania 11 e in Italia 48. A tutto questo, poi, si aggiungeva un'ulteriore anomalia: tra chi pagava e chi riceveva il denaro c'erano quelli che lo consegnavano, e allora ogni volta succedeva che usciva cento e a destinazione arrivava cinquanta. Per l'affare Montedison, Gardini, quando si accordò con Forlani, consegnò al suo uomo di fiducia un miliardo e mezzo di lire da far avere alla Dc: il suo uomo, a sua volta, passò il denaro a un terzo, e così via. Alla fine alla Dc arrivò mezzo miliardo; e se si considera che da via Del Gesù alla sede della Montedison ci sono settecento metri...».

Lungo la strada si è perso circa un milione e mezzo di lire al metro...
«In pratica sì, mangiavano un po' tutti. Nel tragitto da Gardini a Citaristi un bel po' di soldi si è volatilizzato. Ma qui mi sento di testimoniare sull'onestà personale di Citaristi. Io gli ho inviato 71 avvisi di garanzia, un record, ma non ho mai trovato una sola lira incassata da lui. Citaristi era conscio del proprio ruolo, era stato messo lì perché di lui si fidavano, il partito sapeva che non prendeva nulla per sé, a differenza di tanti altri segretari amministrativi che invece lo hanno fatto».

Torniamo a Tangentopoli.
«Il dramma è che pagare per ottenere un lavoro era diventato qualcosa di scontato. Io la chiamavo "dazione ambientale". La tangente non era necessario né chiederla né proporla: era automatica, "ambientale", appunto. Coniai questo termine dopo aver interrogato un imprenditore varesotto che lavorava nel settore edile-stradale, con appalti soprattutto nel Milanese. Lo sentii in ospedale, dov'era ricoverato: otto ore di domande, avevo le carte che parlavano, ma quello niente, un altro po' e confessavo io. Quest'uomo aveva fatto la guerra, non cavai un ragno dal buco. Alla fine mi ricordo che, sconsolato, chiusi il fascicolo e feci per andarmene. Allora lui mi prese la mano e disse: "Giovanotto, mi pare che lei sia in buona fede. Ho ottant'anni, vorrei che non succedesse più tutto quello che è successo a me, però non ci provi più a pretendere da me le cose, perché io non ho paura di lei: ho fatto la prigionia in guerra, si figuri. Si rimetta seduto che glielo spiego io come stanno i fatti". Allora io per farmi bello tirai fuori di nuovo il fascicolo con le contestazioni, erano circa una cinquantina, e cominciai con la prima. E lui mi rimbrottò: "Lasci stare, è dal '48 che faccio questo lavoro, le dico io i tre casi in cui non ho pagato, così facciamo prima". E mi raccontò tutto. Subito dopo interrogai un ragazzo di 29 anni. Ricordo che si mise seduto nel mio ufficio e otto secondi dopo aveva già confessato. Ma io dovevo pur darmi un certo tono, era durato tutto troppo poco. Allora cercai di andare oltre, di capire, e gli chiesi: "Perché ha pagato?" Risposta disarmante: "Perché così faceva papà prima di me". Dazione ambientale, si pagava a prescindere».

E oggi?
«L'amarezza dopo vent'anni e che tutto è cambiato, ma nulla è cambiato. La Tangentopoli si è ampliata, il sistema si è ingegnerizzato ed è più difficile da aggredire. In questi anni, poi, ha avuto una copertura perché si è fatto credere, e si continua a far credere, che si tratta di una guerra tra bande, tra magistratura e politica. In realtà è una guerra tra guardia e ladri, dove non tutti i politici sono ladri e non tutti i magistrati sono guardie».

Appunto. Qualche peccatuccio l'avranno commesso pure i magistrati. E magari anche qualcosa di più.

«Io voglio salvare la magistratura, non le singole azioni. Certo, ci sono stati magistrati che non hanno fatto il loro lavoro, penso a Metta, Pacifico o Squillante, però il cancro l'abbiamo diagnosticato. Toccava alla politica curarlo. Bisognava fare un'opera di prevenzione. Con Mani pulite è come se si fossero eseguiti degli interventi chirurgici, ma se a questi non segue una terapia, il tumore torna. Ed è tornato, sta portando alla morte istituzionale, economica ed etica del nostro Paese».

Qual è oggi il rapporto tra denaro e potere?
«Ieri il potere serviva per fare denaro, oggi il denaro serve per raggiungere il potere. Si sono invertiti i ruoli. Il politico si è fatto imprenditore e viceversa, non ha più bisogno di pagare per ottenere qualcosa: fa tutto da sé, in pieno conflitto di interessi. Non parlo solo di Berlusconi, lui è il caso più evidente. Oggi le imprese fanno le consulenze, i finanziamenti vengono messi a bilancio. Tutto è ufficializzato. Ci sono multinazionali italiane che alla vigilia delle elezioni riuniscono il Consiglio d'amministrazione, deliberano e mandano soldi ai partiti in proporzione al peso dei singoli gruppi in Parlamento, a tutti. Li hanno mandati anche noi dell'Italia dei valori, li abbiamo rispediti al mittente».

Insomma siamo punto e a capo. Però all'epoca di Mani pulite Di Pietro era un magistrato e faceva le radiografie di Tangentopoli, oggi sta dall'altra parte, con la classe politica.

«Già, ma in questi vent'anni si è combattuto più il medico che la malattia, si è buttata in uno scontro tra politica e affari quella che doveva restare solo una questione giudiziaria. Questo è stato il dramma. Quando si è capito come si scopriva la malattia, si è posta in essere una serie di azioni per non farla più scoprire. Risultato: la malattia è degenerata, ma gli strumenti a disposizione per combatterla sono diventati minori. Uno su tutti: la depenalizzazione del falso in bilancio. Sa, tutta Mani pulite si è basata su un'intuizione che, sì, rivendico a me stesso: ho creato una tecnica d'indagine inversa a quella dei miei predecessori. Loro cercavano di scoprire chi aveva preso i soldi, cosa che non riuscivano a fare quasi mai perché, essendo la corruzione e la concussione reati in concorso, c'era un'omertà obbligata tra i due soggetti coinvolti. Io invece ho ignorato questo aspetto: sono partito dai falsi in bilancio. Quando scoprivo che c'erano cifre non giustificate, andavo dall'imprenditore e gli dicevo: "O il reato te lo tieni tu, procedura fallimentare e societaria, o mi dici che fine hanno fatto i soldi". Agli industriali, specialmente questi al Nord, che si spezzano la schiena per l'azienda, non gli facevano paura tre giorni di carcere. No, gli faceva paura l'idea di veder morire la loro creatura, l'impresa, per il fatto di aver pagato. Non dimenticherò mai quell'imprenditore che viveva a Milano Torre Velasca: andammo a suonargli il campanello la mattina presto e cominciò a confessare al citofono. "Fermati", gli dissi, "aspetta, scendi giù almeno". E lui: "No, non venire su", mi pregava. Capisce? Oggi non si potrebbe più fare. La legislazione ha prodotto una lavanderia industriale, per cui è stato sbiancato il reato».

E allora che si fa, alziamo bandiera bianca?

«No, ma la cura non la può fare questo Parlamento, perché, per farla da sé, dovrebbe suicidarsi. Io la mia proposta l'ho già depositata da tempo, ma figuriamoci: l'attuale Parlamento è in totale conflitto d'interessi. Solo alla Camera, su oltre seicento deputati, 150 sono avvocati e 150 imputati, non puoi chieder loro la luna».
In conclusione, quand'era magistrato la politica a un certo punto l'ha ostacolata e ora che è in politica, il problema è sempre lo stesso?
«Ricordo bene il 2 settembre del '92, quando Craxi disse: "Non è tutto oro quello che luccica". Fu in quel preciso momento che capii che da volpe sarei diventato presto lepre. E così avvenne, anche sulla stampa. Alla fine, però, è stata anche una fonte di guadagno, per via dei risarcimenti. Un giornale a un certo punto, parlando di me, avanzò dei sospetti su come avessi potuto permettermi una certa casa. Al processo per diffamazione che seguì, risposi producendo gli assegni ricevuti dallo stesso giornale come risarcimento per un'altra diffamazione».

Postato da Antonio Di Pietro

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